[Rapito e assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, Aldo Moro era nato esattamente centodue anni fa, il 23 settembre 1916, a Maglie, in provincia di Lecce. Pubblichiamo per l’occasione un’intervista a Valter Mainetti, presidente di Sorgente Group e allievo dello statista democristiano negli anni dell’università. L’intervista è stata realizzata da Giovanni Filippetto (montaggio di Novella Cucci) per la docufiction “Aldo Moro – Il professore”, prodotta da Rai Fiction e Aurora Tv, ed è stata in parte trasmessa nel maggio scorso su Rai Uno. La regia del programma era di Francesco Miccichè].

Partiamo dal 16 marzo 1978. Lei dov’era e quale fu il suo stato d’animo quando apprese la notizia?

Ricevetti una telefonata a casa dalla segreteria politica della Democrazia cristiana. Anzi fu mia moglie a rispondere, perché ero fuori. Mia moglie mi chiamò dicendomi “Hanno rapito Moro”. “Come?”. Me lo sono fatto ripetere più volte perché ero incredulo. Non pensavo che una cosa del genere potesse mai accadere. Eravamo avvezzi ai rapimenti che in quel periodo erano abbastanza frequenti, ma mai avrei pensato che un personaggio così protetto, come il Presidente, potesse essere rapito. Rimasi sgomento.

Che pensò di fare? Come reagì?

Annullai tutti gli appuntamenti. Avrei dovuto andare anche fuori Roma, e mi recai immediatamente in via Fani, dove trovai l’area del rapimento recintata. Macchine della polizia, carabinieri, c’era di tutto. Riuscii comunque ad arrivare a parlare e chiesero a noi studenti accorsi, in particolare a Franco Tritto e a me, quante fossero le borse di Moro. Un particolare che sembrava preoccupare molto gli inquirenti.

Voi le trovaste le borse di Moro?

No. Spiegammo che normalmente il Presidente teneva alcune borse in macchina. Ed era il maresciallo Leonardi, che era il capo della scorta, a provvedere al trasferimento delle borse dal portabagagli della macchina a casa, e poi da casa di nuovo alla macchina, quando andavano a prendere il Presidente. Le macchine erano tre e venivano alternate. Ci chiesero anche quale fosse il contenuto. Noi sapevamo che una era per il collegio, una per le tesi universitarie, un’altra era per la corrispondenza privata. Il contenuto delle borse, quando sostavano nello studio di Moro, in via Savoia, veniva rimesso a posto dalla segretaria personale, Liliana Fantasia. Ma di più non sapevamo. Erano preoccupati che le borse contenessero dei segreti di Stato, ma questo noi studenti non potevamo saperlo.

Quindi le borse di Moro erano una specie di ufficio viaggiante?

Sì. Il Presidente stava spesso in macchina. Andava a volte a Bari con l’auto e molto spesso a Terracina. Utilizzava il viaggio per rispondere alla corrispondenza. E le borse lo accompagnavano sempre per svolgere questa parte del suo lavoro.

Parliamo di Moro come professore universitario. Lei come l’ha conosciuto?

Ero iscritto a Scienze politiche e decisi di frequentare anche le lezioni di Moro, che ancora non facevano parte del mio piano di studi. Non trattavo l’università come un esamificio, per me era un ambiente da frequentare a tutto tondo. Quando un amico, Gianni Castelvecchio, mi informò che Moro, il ministro degli Esteri, teneva delle lezioni, decisi di frequentarle regolarmente. Lo chiamavamo “Presidente” perché era già stato presidente del Consiglio.

Com’erano le lezioni del professor Moro?

Meravigliava un po’ tutti che lui prendesse le presenze. Faceva l’appello e tutti dovevano rispondere. Ho ricevuto in dono alcune schede del registro di quegli anni. Ci sono tutti i nomi, con accanto delle bacchettine che corrispondevano alle presenze. Lui ci teneva molto. Quando c’erano le esercitazioni, controllava che lo studente avesse frequentato le lezioni. Altrettanto stupefacente era la chiarezza del Moro professore, rispetto alla complessità dei discorsi del Moro politico. Sapeva mettere lo studente a suo agio, per fargli comprendere in una maniera molto lineare anche dei concetti piuttosto complessi.

C’era molto rispetto nei suoi confronti?

Moro godeva di un grande rispetto. Ho frequentato l’università dall’inizio del ’71 fino al luglio del ’73, e ho sempre notato un rispetto assoluto. Molto di più di quanto fosse riservato ad altri politici che a quel tempo insegnavano nella facoltà di Scienze politiche.

Anche durante eventuali contestazioni da parte degli studenti?

In quel periodo non ricordo contestazioni. Dopo, dal ’74 in poi, andavo all’università solo per salutarlo, ma anche allora non sono mai stato presente a contestazioni. Tranne a quella famosa di Pannella, ma fu un po’ un gioco.

Ce la può raccontare, se se la ricorda?

Pannella voleva parlare con Moro, entrò col megafono. Lo voleva intervistare, e Moro disse: “Voglio finire prima la lezione”. Pannella uscì e disse: “Basta che non ci prenda in giro come al solito”. Lo disse forse in un altro modo, però il concetto era questo.

E Moro?

Moro era indifferente, imperturbabile.

“Aldo Moro il mio professore”, l’intervista a Valter Mainetti – versione integrale

Le lezioni erano difficili?

No. Come le dicevo prima, indubbiamente erano complesse, però non erano difficili perché lui spiegava con grande chiarezza.

Dopo le lezioni, lui usava fermarsi con voi studenti. Perché e che cosa vi diceva?

Questa è la parte più interessante del Moro professore, perché lo rende docente un po’ come lo era Socrate, che si fermava con i suoi studenti. E noi lo apprezzavamo. Ed era forse proprio per questo suo comportamento che godeva del rispetto di tutti. Gli altri professori magari andavano di corsa. Lui invece si fermava. Si creava intorno alla sua persona un gruppo di studenti che gli facevano le domande più disparate. Lui ascoltava con attenzione e si ricordava tutto. Anche dopo mesi che uno ritornava all’università, lui si ricordava dell’argomento di cui aveva discusso. Dopo essere entrato abbastanza in confidenza, mi spiegava che questo era un modo per verificare l’evolversi della società. Per lui i giovani ne erano il termometro. Ci raccomandò infatti, e gli diedi ascolto, di vivere il mondo universitario anche dopo la laurea.

Nello specifico, di cosa si parlava?

Si parlava di tutto. Per lo più della cronaca politica generale. Ma per quel gruppo di noi studenti, che gli stava più vicino, Moro faceva già parte della storia, gli altri politici appartenevano invece alla cronaca politica. E ciò molto prima del rapimento, tra il ’71 e il ’73, che è il periodo in cui l’ho frequentato con maggior assiduità. Per noi, che tra l’altro eravamo impegnati in studi storici, quando parlava Moro, parlava la Storia. Mentre quando gli altri politici parlavano e facevano dei discorsi, era semplicemente cronaca.

Aldo Moro e la politica (Valter Mainetti: Aldo Moro il mio professore)

Dopo le lezioni, quanto stavate con lui?

Anche un’ora. Questo causava l’irritazione dei politici, che dicevano “Moro perde tempo con voi”. Quando qualcuno di noi, frequentando più da vicino la Democrazia cristiana, incontrava i politici del gruppo del Presidente, i suoi collaboratori dicevano: “Eh, sta sempre a perdere tempo all’università”.

Erano discorsi per lo più politici, oppure si interessava anche al vostro privato?

Erano discorsi politici, storici, e poi si interessava al nostro privato, assolutamente sì.

E perché?

Perché aveva una visione della vita molto umana, era un cattolico vero. Quindi poneva l’uomo al centro dell’universo, in base ai concetti cattolici essenziali. Lui aveva un grande rispetto verso gli altri.

Quali sono stati per lei gli insegnamenti di Moro più importanti, in primis umani e poi politici?

L’insegnamento essenziale che lui ci diede fu proprio il rispetto dell’altro, la considerazione che ciascuno doveva avere nei confronti del prossimo. Poi la dedizione. Come ministro degli Esteri, era un grande viaggiatore. Lo vedevamo in televisione tornare dai paesi più lontani, fra i quali alcuni si conoscevano appena, e poi il giorno dopo arrivava puntuale all’università per tenere la sua lezione. Quindi il senso del dovere e della precisione. L’appello stesso dei presenti alle sue lezioni poteva sembrare all’inizio un po’ eccessivo, invece era un segno della professionalità del professor Moro. Infine, la coerenza tra il pensiero e l’azione. Sicuramente era coerente tra quel che pensava e il modo in cui poi agiva.

Lui teneva molto alla sua professione di docente, rispetto alla carriera politica…

Sì. In quel periodo tutti i politici democristiani avevano anche una professione. A chi voleva avvicinarsi alla politica e gli chiedeva un consiglio diceva: “Mi raccomando, dovete prima formarvi professionalmente, poi quando la politica vi chiamerà, anche se diventerà la parte più impegnativa della vostra attività, potete anche ridurre la professione, ma non abbandonatela mai. E infatti Moro, anche quando ricoprì incarichi di governo complessi e veramente impegnativi, non lasciò mai l’Università.

L’umanità di Aldo Moro (Valter Mainetti: Aldo Moro il mio professore)

Lui chiedeva quale futuro avreste voluto avere?

Certo, a tutti. A me diceva: “Ma tu vuoi fare il diplomatico, il politico o l’industriale?”, provenivo infatti da una famiglia di tradizione industriale. Mio cognato aveva vinto il concorso agli Esteri, quindi ero interessato alla diplomazia, mi affascinava però anche la politica. Poi andò diversamente.

E agli altri? Dava consigli anche a loro?

Sì, sì. Dava dei pareri e dei consigli, però mai in modo pressante.

A lei cosa consigliò?

Mi disse di fare l’industriale e poi di interessarmi di politica, nel modo però che lui intendeva. E cioè di non anteporre l’attività politica all’attività aziendale.

C’erano degli aspetti su cui non andavate d’accordo, dal punto di vista politico, per esempio?

Sì. Alle sue lezioni partecipavano studenti già molto orientati a destra o a sinistra, però anche nelle discussioni più accese si manteneva un grande rispetto verso il Presidente. Aveva quel suo modo

dolce di parlare, sempre un po’ sottovoce, che metteva a proprio agio l’interlocutore. Quindi era difficile essere aggressivi, anche se la si pensava diversamente.

Tornando ai 55 giorni, voi studenti sentivate rabbia per quello che stava accadendo?

Noi non facevamo certo parte del partito della fermezza. Sostenevamo la trattativa assoluta. Sapevamo, e ci dicevano alcuni amici di Moro, che una trattativa c’era. Siamo stati da Cossiga, abbiamo parlato soprattutto con Zaccagnini e con Pisanu. Non avevamo, purtroppo, un ruolo istituzionale, eravamo solo studenti e, anzi, considerati dai politici come quei rompiscatole che trattenevano Moro all’università. Ci ascoltavano, ma non siamo riusciti a fare niente di più. Abbiamo provato a insistere, cercando di capire come avremmo potuto essere più ascoltati. Ma non fu possibile, perché il partito della fermezza aveva l’appoggio anche degli organi di Polizia e Carabinieri, che avevano perduto cinque persone nel momento dell’attentato e quindi non vedevano come fosse possibile fare una trattativa. Loro avevano cercato di salvare il Presidente senza riuscirci, ed erano rimasti uccisi, e per questo non vedevano di buon occhio alcuna mediazione. Anche il Partito comunista non voleva assolutamente che si aprisse il dialogo con le Brigate Rosse. E’ del resto noto che gli unici a volere una trattativa erano Craxi e Fanfani. Incontrammo anche loro.

“Parlando a bassa voce, pacatamente, creava attorno
a sé un clima di grande attenzione… Si dedicava ai nostri problemi, piccoli o grandi che fossero, perché considerava il lato umano prima di tutto, coerentemente con la sua fede cattolica”

Non vi davano retta assolutamente?

No, ci ascoltavano, nel senso che stavano ad ascoltarci. Poi non succedeva niente. Non successe niente. Peraltro, a un certo momento ci sembrava di aver capito, sulla base di alcune informazioni che circolavano, che Moro dovesse essere liberato, e invece venne ucciso, e non si sa ancora perché.

C’era rabbia in quei giorni da parte vostra?

In quei giorni c’era moltissima rabbia fra noi studenti, perché non riuscivamo a interloquire, non riuscivamo a convincere nessuno sulla necessità di avviare una trattativa effettiva. Si sapeva che c’erano delle trattative più o meno segrete e riservate, che non portarono però a niente.

Il rapimento (Valter Mainetti: Aldo Moro il mio professore)

Quando cominciarono ad arrivare quelle lettere, voi cosa ne pensaste?

Eravamo meravigliati di come la stampa nel suo insieme criticasse quelle lettere e dicesse che Moro non stava bene, che psicologicamente non era affidabile, persino che le lettere non erano di Moro. Non è vero, quelle lettere erano assolutamente sue. Bisognerebbe leggerle adesso, fuori da quel contesto. Io l’ho fatto per due volte e le ho trovate splendide. Come diceva Pannella: “Le splendide lettere di Moro”. Già allora noi studenti le consideravamo in maniera diversa da come venivano commentate dalla stampa. Eravamo comunque certi che Moro avrebbe convinto le Brigate Rosse a essere liberato, e in effetti in parte ci riuscì. Fu l’ultima sua grande mediazione. Riuscì infatti a spaccare il fronte delle Brigate Rosse. Purtroppo, poi…

Nel 1990, in quel covo a via Monte Nevoso, viene trovata una lettera in cui Moro dice a Saverio Fortuna di salutarvi. Lei quando lesse quella lettera, cosa pensò?

Fino all’ultimo giorno abbiamo sperato che Moro venisse liberato. Pensavamo che quell’addio facesse parte anche un po’ del suo pessimismo. Moro era fondamentalmente un pessimista. Dopo abbiamo compreso che lui aveva invece ben capito che cosa stava per succedergli. Fino all’ultimo mi sembrava impossibile che il Presidente potesse essere ucciso in quel modo. Pensavo che le Brigate Rosse lo avrebbero liberato per fare un gesto – e avrebbero fatto molto meglio – da un punto di vista politico-storico. E ciò mi dava la forza di confidare in un finale positivo.

In realtà non fu soltanto la stampa o il Partito comunista a credere che quelle lettere non fossero vere. Andreotti stesso disse “Quelle lettere sono irricevibili”.

Su Andreotti si è detto molto. Incontrando il presidente Andreotti qualche anno fa, gli chiesi che cosa ne pensasse sulla vicenda Moro, però non mi diede altri argomenti rispetto a quelli noti. Mi disse soltanto: “La nostra generazione era fatta di persone tutte preparate e intelligenti, però il più intelligente era Aldo Moro”. Ed era sincero. Convinto che Moro fosse un’intelligenza superiore.

Ci può delineare un profilo politico del professor Moro, in poche parole?

Un tessitore, un grande tessitore. C’è un “momento Moro” nella storia del nostro paese che corrisponde, anche per Fanfani, al centro-sinistra. Loro hanno saputo disegnare una strategia politica di grande importanza, mentre altri politici sono stati solo amministratori dell’esistente. E ritengo che Moro sia stato fondamentale in quel periodo storico, nonostante la fine che gli hanno fatto fare. Fondamentale proprio per l’esemplare mediazione che lui portava avanti, capace di riunire in un’unica risultante tutte le forze, portandosi poi alla guida e raggiungendo quindi il risultato che si era proposto.

Prima del 16 marzo, stava per concretizzarsi il progetto di Moro di unire in un’intesa la Dc e il Pci. Lei cosa ne pensa?

Il Presidente lavorava su questo. Riteneva che il compromesso storico fosse necessario per eliminare il cosiddetto bipartitismo imperfetto che vivevamo allora. Adesso, col senno di poi, sembra sia stato fin troppo un precursore. Fosse arrivato dopo il crollo del Muro di Berlino, sarebbe stato più semplice. Certo che questo suo progetto, prestigioso dal punto di vista ideologico, si trasformò poi in una minaccia per la sua vita. Si inimicò infatti gli ambienti internazionali che non lo condividevano affatto. Peraltro, anche nel Partito comunista aveva molti nemici, che temevano una “social-democratizzazione” del partito.

Lei ha avuto la sensazione che lui preferisse fare il professore, rispetto all’attività politica?

Questo non lo so. Teoricamente sì, ma poi io penso che la politica per lui fosse ormai parte integrante del suo Dna. Aveva iniziato troppo presto e aveva avuto successo immediatamente. Non riesco a vedere un Moro non politico.

Valter Mainetti: Aldo Moro il mio professore

Macaluso ci ha detto che se fosse uscito vivo dal rapimento, probabilmente avrebbe poi lasciato la politica e continuato a fare il professore. E’ un pensiero che avete avuto anche voi?

No, non l’ho avuto. Semmai l’abbandono della politica sarebbe durato solo tre o quattro mesi.

Nel ’74 Moro incontra Kissinger. Ma secondo lei è vero che Moro non era ben visto da una parte del governo degli Stati Uniti?

Moro non era ben visto né dalla sinistra dell’Unione Sovietica, né dalla destra del Partito repubblicano americano. Come non era ben visto né da una parte del Partito comunista, né da una parte della destra italiana. Pensavamo che fossero apparati vicini a queste ideologie a muoversi contro il nostro professore. Peraltro, per me il caso non è affatto risolto. Bisognerebbe andare ancora più a fondo.

Lei che idea si è fatto delle Brigate Rosse?

Sono state certamente le Brigate Rosse a rapirlo, ma sono state deviate o guidate da altri successivamente.

Cosa glielo fa pensare?

Ci sono troppe cose strane. A partire da come si è svolto il rapimento: per sparare in quel modo bisogna essere dei professionisti, non certo paragonabili alle Brigate Rosse che pensavamo di conoscere. E ciò fa pensare a immissioni estranee al loro gruppo originale. Ma qui il discorso si farebbe complesso e ci porterebbe lontano dal Moro professore.

Moro organizzava delle gite, per esempio in carcere. E’ successo anche con voi?

Sì, noi andammo al manicomio criminale di Aversa, perché Moro insegnava Istituzioni di Diritto e Procedura penale e lì c’era ancora il manicomio criminale. Tra i detenuti c’era anche colui che aveva preso a martellate la Pietà di Michelangelo. Il Presidente cercò di parlargli, ma quello diede in escandescenze e ci fu una scena anche piuttosto divertente.

Perché venivano organizzate queste gite?

Moro lo faceva per conoscere meglio i ragazzi e quindi per capire meglio verso quali cambiamenti si stava indirizzando la società.

Il centro-sinistra e il compromesso storico,
Moro “grande tessitore… fondamentale in quel periodo storico,
nonostante la fine che gli hanno fatto fare”. La “straordinaria umanità”
del professore, che torna in mente ancora oggi nei momenti difficili

Si affrontavano anche argomenti importanti in queste gite.

Queste gite consentivano di proseguire la discussione degli argomenti che, in maniera più sintetica, venivano affrontati nei corridoi dell’università. Alla gita c’era più tempo per parlare di politica, di storia e anche dei nostri problemi. Era singolare assistere a come gli ultimi arrivati non fossero affatto intimiditi nel raccontare a Moro anche piccolissimi problemi. Noi “veterani” ritenevamo irriguardoso rivolgerci al ministro degli Esteri con delle problematiche di scarsa rilevanza. Alcuni erano persino un po’ troppo curiosi. Ma lui riusciva a districarsi facilmente.

C’erano anche delle confidenze personali da parte vostra?

Confidenze non so. Nelle gite eravamo sempre in gruppo. Quando però il Presidente ci riceveva da soli, si poteva parlare anche di problemi personali.

Moro aveva una grande memoria?

Moro aveva una memoria straordinaria. Devo dire che ho incontrato poche persone con una memoria come la sua. Sosteneva che la memoria deve essere allenata e diceva di avere un particolare modo e metodo per allenarla. Si ricordava tutto di ogni studente, di qualsiasi problema, anche banale. Anche dopo un mese o due si trovava a riparlarne. Gli veniva spontaneo.

Vi conosceva uno per uno?

Uno per uno. Assolutamente.

Aveva i vostri numeri di telefono?

Aveva i numeri di telefono, ci mandava le cartoline dai viaggi che faceva quando era ministro degli Esteri. Sceglieva cartoline appropriate per ragazzi o ragazze. Era molto attento. Anche noi gliene mandavamo.

Quindi c’era un rapporto anche umano?

Molto umano, il rapporto era soprattutto umano.

Parliamo ancora dell’umanità di Moro.

L’umanità del Presidente era qualcosa di straordinario, ed è il motivo per cui, secondo me e secondo noi, veniva molto rispettato. Parlando poi a bassa voce, pacatamente, creava attorno a sé un clima di grande attenzione. Per riuscire ad ascoltarlo occorreva infatti stare in assoluto silenzio. Si dedicava ai nostri problemi, piccoli o grandi che fossero, perché considerava il lato umano prima di tutto, coerentemente con la sua fede cattolica. E ciò emergeva in modo quasi tangibile nei frequenti colloqui con ciascuno di noi.

Giorgio Balzoni, allievo di Moro e oggi giornalista, ci ha detto: “Ogni volta che nella vita ho dovuto prendere una decisione importante, immaginavo cosa Moro ne avrebbe pensato”. E’ così anche per lei?

Noi che abbiamo avuto una formazione cattolica, abbiamo il concetto di sant’Ignazio, che diceva “Quando uno si trova di fronte a due vie, deve scegliere quella che sceglierebbe se avesse poche ore di vita”. Quindi sono abbastanza allenato a questi concetti. Anche a me è capitato, e ritengo che sia capitato a tutti noi che lo abbiamo conosciuto, di immaginare, in determinate situazioni di incertezza, a come il Presidente si sarebbe comportato in quella circostanza.

A lei ogni tanto viene in mente il professor Moro?

Penso sempre al Presidente. Non ho mai smesso di pensare a lui con rispetto. Ho una ferita ancora aperta per come è finita la sua esistenza. Ricordo che quando morì mio zio, il Presidente mi inviò un biglietto: “Mi dispiace per il tuo dolore che solca una ferita nella tua giovinezza”. In realtà, poi rileggendolo molte volte, ho pensato che il vero solco nel mio animo lo abbia creato proprio la fine del Presidente.

Quando le viene in mente il Presidente?

Nei miei momenti difficili. Fa parte di quell’empireo: come mia madre e mio padre, c’è il Presidente. Per l’umanità che aveva. Per la predisposizione ad aiutare gli altri e al rispetto dell’altro.

C’è qualche insegnamento che Moro le ha passato, consciamente o inconsciamente, e che lei trasmette ai suoi studenti e ai suoi figli?

Innanzitutto il rispetto verso le idee di tutti. Per risolvere il confronto bisogna trovare la risultante. Riguardo alla politica Moro sosteneva che sono democratici quei governi che sanno raccogliere tutte le istanze e trovare la risultante. Cosa che non fanno i governi di estrema sinistra o di estrema destra. Per Moro governare significava coordinare i vari gruppi, nella vita così come nella famiglia. Bisogna sentire le varie istanze e quindi agire in maniera coerente con il pensiero di tutti. Altrimenti non si è leader. E ciò porta a essere autoritari e non autorevoli. Moro era autorevole. Ed era un grande leader.

Arriviamo al 9 maggio del ’78. Lei si ricorda quel giorno?

Il 9 maggio del ’78 è stato per me un giorno terribile. Mio padre morì il 7 maggio, quindi ero preso dagli aspetti che potete immaginare. Poi arrivò questa notizia, che mi fu data da un cugino. Eravamo tutti a casa mia perché mio padre non c’era più, era la classica situazione di quando c’è una morte importante in una casa. E questo fu per me… C’era chi girava per casa e diceva “Valter ha perso un secondo padre”. Me lo ricordo questo, sì.

Che fece dopo quel giorno?

Dovetti prendere in mano l’azienda di mio padre. Mio padre morì di domenica e lunedì ero in ufficio. E purtroppo non è che avessi molto tempo da dedicare al dolore, anche se di dolore ce n’era tanto. Poi ci furono tutte le varie messe, le cerimonie, di mio padre, del Presidente, quella della famiglia, quella di San Giovanni. Cercavo sempre di reagire, insieme ad altri, di capire come mai fosse successo.

E’ mai andato al cimitero di Torrita Tiberina?

Sì, andai. Sapevo che il Presidente era sepolto nella cappella di famiglia. Mi recai una sera che avevo dei problemi e lo volli andare a trovare, per confidarmi. Il cimitero stava per chiudere. Chiesi al guardiano di lasciarmi restare ancora per un po’.