Valter Mainetti, uomo che ama il bello, è amministratore delegato di Sorgente Group, specializzato nel settore degli investimenti e della finanza immobiliare con il patrimonio fatto di edifici iconici come il Flatiron a New York, Fine Arts di Los Angeles o la Galleria Colonna a Roma. Del gruppo fa parte anche la Fondazione Sorgente con una ricca raccolta di antichità greche e romane, una pinacoteca con opere dal 1400 al 1700 e un assortimento di arte Liberty

A Roma sono conosciuti come ‘palazzinari’, a Milano come ‘immobiliaristi’. Nelle peripezie lessicali non c’è però posto per Valter Mainetti, uomo che dalle ampie vetrate del suo studio all’ ultimo piano del romano Palazzo del Tritone mi mostra lo splendore deformato di questa città senza fede che è Roma: “Guardi lì,più in giù. La vede? Quella è via Rasella, dove fecero l’attentato. Vede quel muro grigio? Riesce a scorgere quei buchi? Sono quelli dell’esplosione del ’44”. Si ferma, mi fissa con i suoi occhi di zaffiro tagliente come se fossi io ad averli lasciati così. Scrolla appena il capo incoronato dalla canizie e aggiunge: “Ma le pare possibile?”.

Poco oltre mi indica il Quirinale mentre sotto alla finestra si stende un terrazzo condominiale in totale abbandono: lenzuola che svolazzano al sole, cavi televisivi che pendono tra la ruggine di vecchie antenne, attrezzi dimenticati da chissà quanti anni. “Vorremmo comprarlo, o almeno affittarlo ma non riusciamo nemmeno a parlare con l’amministratore del palazzo”. Scuote di nuovo la testa il professor Mainetti (titolo che gli spetta visto che insegna Finanza immobiliare alla facoltà di

Economia dell’università di Parma). Dietro la sconsolatezza pare nascondersi una furia appena trattenuta. Si capisce subito che per lui la bellezza non è fatuo decoro e men che mai simbolo di stato sociale, ma semmai ciò che rende la vita accettabile e preziosa. Valter Mainetti, che non ha raggiunto i settant’anni, è padrone d’una compostezza nient’affatto algida, estraneo a ogni snobismo pur mantenendo una severità antica che non permette improvvisazioni, cialtronate, chiacchiere fatue. Gli dev’essere duro vivere a Roma. Mainetti è amministratore delegato di Sorgente Group, società specializzata nel settore degli investimenti e della finanza immobiliare, che opera oggi con tre holding: Sorgente Group Spa (Italia), Sorgente Group of America Corp. (Usa) e Sorgente Group International Holding Ltd. (Regno Unito). Le società immobiliari, finanziariee di servizi immobiliari sono una sessantina situate nel nostro Paese, in Francia, Svizzera, Gran Bretagna, Lussemburgo, Emirati Arabi, Stati Uniti e Brasile.

Il gruppo ha lanciato dal 2001 una trentina di fondi di investimento immobiliari, raggiungendo un patrimonio del valore di 4,4 miliardi di euro con un rendimento medio del 5,5% e una superficie di circa 2 milioni di metri quadrati. Fra poco Sorgente RES Spa (Real Estate System), società immobiliare a cui verranno conferiti circa 800 milioni di immobili, si presenta a Piazza Affari con un patrimonio complessivo di circa due miliardi di euro (incluso il debito). L’obiettivo, spiegano i suoi uomini, è quello di proporre un titolo azionario liquido legato al real estate di prestigio, prevalentemente in Italia. Mainetti è anche un appassionato e colto collezionista e insieme alla moglie Paola guida la Fondazione Sorgente Group posta sotto la direzione artistica di Claudio Strinati. Fondazione che possiede una ricca raccolta di antichità greche e romane, una pinacoteca con opere dal 1400 al 1700 e uno spettacolare assortimento di arte Liberty.

Tra le altre cose promuove la pubblicazione di libri di prestigio come quello dedicato al Flatiron Building di New York, il primo grattacielo al mondo costruito in acciaio e oggi di proprietà di uno dei fondi di Sorgente Group (che, nel suo stupefacente patrimonio, conta tra l’altro la romana Galleria Colonna, immobili di pregio  piazza Cordusio e via Senato a Milano e molto altro ancora). Questo per farsi un’idea – sia pur vaga – di cosa sia la potenza che quest’uomo gestisce con mano decisa e gesti misurati.

Ma torniamo ai palazzinari o agli immobiliaristi che dir si voglia. La fama di cui godono in questoPaese non è proprio tra le migliori. La storia della famiglia di Valter Mainetti è al contrario una lunga vicenda piena di fascino e non solo e non tanto perché lussuosa e brillante, ma soprattutto perché forte di intelligenza ed energia, di buon gusto e coraggio. Qualità che, appunto, raramente distinguono il mondo dei palazzinari o immobiliaristi che dir si voglia.

Prima – Professor Mainetti, ho letto molte cose su di lei e sulla sua saga famigliare. Mi faccia sentire dalla sua voce come è andata.

Valter Mainetti – Gli artefici sono stati due avi, uno paterno a Roma, l’altro materno negli Stati Uniti. Si trattava di due pionieri in un momento in cui l’agricoltura e l’artigianato si stavano trasformando in industria. Nel 1910 il mio bisnonno paterno avviò un’impresa per la lavorazione del ferro, comprò delle macchine in Austria, realizzò opere per conto dell’architetto Manfredo Manfredi come la cancellata per il Vittoriano di piazza Venezia e parti del Palazzo del Viminale. L’azienda andava bene, prosperava. Poi nel ’43 tutta l’attrezzatura fu sequestrata dalle SS e portata in Germania. Lui ne morì di crepacuore. Nel dopoguerra, mio padre Sergio, quello che tra i nipoti gli era il più affine, si dedicò più all’ impiantistica industriale che alla carpenteria e realizzò il sincrotrone di Frascati e le acciaierie di Terni. Negli anni Settanta, dopo aver studiato all’ università con Aldo Moro, ho iniziato a lavorare a fianco di mio padre. In quegli anni, a Roma, c’era un grande sviluppo edilizio, ma mio padre si rifiutò di mettersi a costruire palazzine. La sua era una scelta ideologica che gli impediva di partecipare a quello che L’Espresso chiamò “il sacco di Roma”. Era un esteta. E se vuole saperla tutta, secondo me fece male…

Prima – Non credo che lei lo pensi veramente, ma andiamo avanti. Che rapporto aveva con suo padre che mi risulta fosse anche lui un collezionista?

V. Mainetti – Avevo un rapporto costruttivo. Sa, un padre e un figlio devono ognuno per sé concedere qualcosa all’ altro, essere reciprocamente tolleranti. Lui era un collezionista fin dagli anni Trenta e mi contagiò la sua passione.

Prima – Qual è stato il suo punto di partenza nel campo immobiliare?

V. Mainetti – Ho iniziato dedicandomi all’ edilizia sociale.

Prima – Partenza piuttosto insolita.

V. Mainetti – Successe che un giorno Aldo Moro mi chiese a cosa mi sarei dedicato dopo gli studi. Gli risposi che ero attratto dall’edilizia e lui commentò: “Cerca solo che abbia un risvoltosociale”. Fu così che mi avvicinai a quel mondo.

Prima – Mi parli del suo côté americano.

V. Mainetti – È da parte di mia madre. Mio nonno, dopo la Grande Guerra, aveva venduto l’azienda agricola che aveva sul Lago Maggiore e si era trasferito in America, dove per altro c’era già un nostro zio dal 1890. Per un fatto del tutto casuale, anche mio nonno materno si occupava di carpenteria metallica e aveva fondato un’impresa a New York con manodopera indiana – preziosa per la propria capacità di equilibrio – e capomastri lombardi.

Prima – Una macchina da guerra.

V. Mainetti – Ha detto bene. Tanto che riuscì ad assicurarsi alcuni appalti di costruzioni delle strutture metalliche che si completavano in un batter d’occhio: ogni due giorni un piano, tanto che in un mese riuscivano a raggiungerne quaranta. I pagamenti erano rapidi e New York viveva una stagione di grande sviluppo.

Prima – Anni d’oro, gli anni dell’Art déco.

V. Mainetti – Nacquero grattacieli rimasti famosi come il Chrysler, il French Building, il New York Telephone Co. Building.

Prima – Questa storia del Chrysler ormai è diventata una leggenda. Tutti dicono che lei se lo comprò ma poi lo rivendette. Come è andata?

V. Mainetti – È vero, il palazzo del Chrysler lo abbiamo sempre sentito come nostro e ai nostri occhi il nonno ci sembrava una specie di Superman. Stiamo parlando dei primi anni Cinquanta e io studiavo a Roma, in una scuola pubblica perché così voleva mia madre che era un’americana molto pratica. Un giorno la maestra ci diede un tema: ‘Raccontate la vostra estate’ e io descrissi il mio viaggio a New York. Nessuno ci voleva credere. Andare in America era come andare sulla Luna a quei tempi.

Prima – Gli italiani non hanno mai goduto di una grande reputazione negli Stati Uniti, essendo stati sempre considerati dei mafiosi con un piatto di spaghetti fumanti sulla tavola.

V. Mainetti – Ricordo una manifestazione di italiani per le strade di New York che portavano un cartello con su scritto “Italians are not gangsters”. La cosa mi ferì molto, ma questo non toglie che sia rimasto sempre legato alla comunità immobiliare newyorchese. Quando nel 1999 abbiamo creato il primo fondo istituzionale italiano sono riuscito a persuadere i sottoscrittori a dedicare una parte dell’investimento negli Stati Uniti.

Prima – E qui continua la leggenda del Chrysler, giusto?

V. Mainetti – In effetti comprammo la maggioranza del Chrysler che era stato progettato da William van Alen. Se ci pensa è una cattedrale gotica rivisitata secondo il gusto déco. In cima, sulla guglia, creò un osservatorio e un piccolo museo delle attrezzature di Walter Chrysler. Nel 2008 arrivarono degli arabi di Abu Dhabi e, in piena crisi, ci offrirono il doppio di quello che avevamo pagato.

Prima – Mi parli del Flatiron che è una delle costruzioni più spettacolari di Manhattan.

V. Mainetti – Con i soldi ricavati dalla vendita del Chrysler Building e traendo vantaggio dalla crisi che aveva fatto scendere tutti i prezzi, mia figlia, che è bravissima in materia, riuscì a portare a casa il Flatiron.

Prima – La fama di chi lavora nell’immobiliare non è proprio tra le migliori in Italia. Come se lo spiega?

V. Mainetti – Fama non del tutto ingiustificata tanto che noi viviamo in una specie di isolamento.

Prima – Resta il fatto che avete bisogno di creare una buona reputazione per via degli investimenti.

V. Mainetti – Anche noi, in America, quando si affacciano operatori italiani siamo sempre sul chi va là. E un motivo c’è: per fare il broker immobiliare basta un ufficetto, una scrivania, un indirizzo e-mail e la gente si esalta presto con le cifre che girano. Per quel che riguarda i costruttori, poi, le ho già detto che mio padre si rifiutò di partecipare alla trasformazione di intere aree. Però vorrei dirla tutta.

Prima – Sono qui per ascoltarla.

V. Mainetti – Oltre a parlar male dei palazzinari dovremmo anche ricordarci le schifezze che ha fatto qualche architetto. La Commissione edilizia è sempre esistita anche se non si capisce cosa faccia. E poi, alla fine, queste palazzine non sono nemmeno così brutte. È che l’area urbana è intensiva, con troppo traffico e nessun parcheggio. Insomma, non c’è un concetto urbanistico

che meriti questo nome.

Prima – Che cosa ispira Sorgente Group? Già i nomi dei fondi – Michelangelo, Donatello,Caravaggio eccetera – sono piuttosto bizzarri.

V. Mainetti – Se è vero quel che dicevamo prima, e cioè che gli italiani hanno goduto in America di una fama pessima per via della criminalità organizzata, dobbiamo anche aggiungere che nelle conversazioni private tutti gli americani ricordano e invidiano l’antica Roma, il nostro Rinascimento, Leonardo, Michelangelo. Il messaggio è: certo, è vero, siamo italiani e possiamo vantare una tradizione che non ha confronti. È per questo che al Grand Palais di Parigi abbiamo esposto tre teste marmoree del periodo giulio-claudeo e in questo momento al Metropolitan Museum abbiamo una mostra di gioielli greco-romani. Questo ci consente di incontrare gli investitori in posti di privilegio e distinguerci dagli altri operatori. Un conto è battezzare un fondo Michelangelo, un altro è chiamarlo – chessò – Globale! L’impatto, se mi permette, è ben diverso.Va da sé che dietro al nome, per suggestivo che sia, deve esserci la sostanza, che poi sono gli immobili di architettura importanti. Noi ci siamo collocati in questa nicchia costituita dagli immobili iconici come il Fine Arts di Los Angeles o a Roma la Galleria Colonna e il palazzo della Rinascente.

Prima – So che vi fa gola anche la Torre Velasca a Milano.

V. Mainetti – Non so se riuscirò a farcela.

Prima – Il Chrysler le è rimasto, come si dice, sul gozzo.

V. Mainetti – Diciamo che non è detta l’ultima parola.

Prima – Se ho capito bene, lei sostiene che vi sia coerenza tra il suo lavoro e le sue passioni, un filo rosso che lega entrambe: la bellezza.

V. Mainetti – Io piuttosto direi che il filo rosso è riconducibile al collezionismo. Lì sì che conta la bellezza legata alla rarità. Un principio base dell’economia dice che le cose più son rare e più valgono. Il metterle insieme fa sì che il valore complessivo sia però superiore alla somma degli oggetti. È come una collana di perle della stessa dimensione e colore. La collana vale

più della somma aritmetica di ogni perla.

Prima – Che relazione c’è tra Sorgente Group e l’omonima Fondazione che sua moglie Paola segue con molta dedizione?

V. Mainetti – La relazione è quella che le descrivevo prima: l’arte come modo di comunicare. Noi possediamo due tipi di collezioni, una personale che viene dagli anni Trenta e che si chiama ‘Collezione M’, che sta per Mainetti.

Prima – Quella avviata da suo padre?

V. Mainetti – E che le SS depredarono insieme ai macchinari. La Fondazione è legata al gruppo e viene utilizzata per convegni, mostre ed eventi, utili per incontrare e interloquire con il mondo finanziario che percepisce immediatamente che ciò che è raro vale di più.

Prima – Se ho capito bene, voi avete dato vita a due fondazioni.

V. Mainetti – La prima è per la charity ed è americana e sostiene la ricerca sull’ epilessia, mentre la seconda, italiana, si dedica all’arte.

Prima – Lei è anche conosciuto come mecenate. Ma un conto è esserlo negli Stati Uniti, dove si viene invogliati e sostenuti, altra storia è esserlo da noi dove persino Diego Della Valle non riesce a donare 25 milioni al restauro del Colosseo senza chiedere un grammo di pubblicità in cambio.

V. Mainetti – Diciamo la verità: anche da noi ci sono norme che già favoriscono il mecenatismo. Il che non mi ha impedito di apprezzare pubblicamente le recenti iniziative del ministro della Cultura Dario Franceschini. Coloro che sarebbero in grado di fare mecenatismo mostrano una certa riluttanza che nasce dal timore di apparire. Io stesso all’inizio, e sto parlando di dodici

anni fa, ho dovuto un po’ violentarmi. La nostra fondazione è stata riconosciuta dalla Prefettura, ma abbiamo dovuto comunicare tutti gli importi, i fatturati, parlare con gli investitori. Per gli americani vale il contrario: loro amano esibirsi e lo fanno senza nessun problema. Spesso alcuni amici d’oltreoceano mi hanno detto: “ma tu temi che la gente veda quel che possiedi?”.

Prima – E lei cosa ha risposto?

V. Mainetti – Che era una cosa a cui non avevo mai pensato.

Prima – Eppure lei dovrebbe sapere quanto sia forte l’invidia sociale, quanto il denaro venga considerato sospetto e i guadagni mai davvero meritati.

V. Mainetti – In effetti anche molti imprenditori dimostrano di condividere l’idea che la proprietà è un furto. Per non parlare dello spettro delle tasse.

Prima – Non le sembra paradossale che da noi anche gli industriali partecipino di una cultura che colpevolizza il denaro e la ricchezza?

V. Mainetti – È un problema che hanno i popoli latini divisi tra cattolicesimo e comunismo, una combinazione…

Prima – Nefasta, me lo lasci dire. Ma visto che state per presentarvi in Borsa, quali sono gli obiettivi a breve e medio termine che vi siete fissati?

V. Mainetti – L’obiettivo è ciò che abbiamo sempre fatto: creare valore attraverso i fondi. Ora però direi che i fondi sono un poco superati per via di una normativa che li ha penalizzati e quindi ritengo che lo strumento della quotazione sia più agile per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto: comprare immobili di pregio, comprare bellezza, valorizzarla.

Prima – C’è così grande differenza tra fondi e quote azionarie?

V. Mainetti – In fondo non c’è una grande differenza. Noi non siamo un gruppo, una azienda famigliare che ha comprato per sé e che adesso ha deciso di andare in Borsa. Da una decina d’anni abbiamo comprato e comprato e ora abbiamo quattro miliardi e mezzo di immobili che non sono tutti nostri, ma dei fondi e quindi vogliamo andare in Borsa perché il titolo dell’azione è più liquido del titolo del fondo. Alla fine, ripeto, non mi pare una grande differenza e infatti i sottoscrittori saranno soprattutto investitori istituzionali.

Prima – E il passo successivo?

V. Mainetti – Se riesce bene la quotazione in Borsa prevedo un aumento di capitale entro il 2015 e poi – verso il 2016, 2017 – una quotazione allo Stock Exchange di New York.

Prima – Come si sentirà nel listino italiano che, se posso dire, non eccelle in qualità?

V. Mainetti – Mi viene da dire: beato l’orbo nella terra dei ciechi.